Sicilia: le leggende sveve e il ciclo di re Artù

di Redazione Commenta

 

Cosa c’entra il mito di Re Artù con le leggende sveve in Sicilia? In realtà, nella Trinacria tutto è possibile e in questa terra di fascino senza tempo le storie si moltiplicano da sempre e si tramandano di generazione in generazione:

La leggenda anglo-sicula di re Artù continua ancora a vivere nel periodo svevo, come subito vedremo: e stavolta la genesi storica della leggenda è data dal terrore che incutevano alle popolazioni siciliane i nuovi domina tori svevi, venuti nel 1194 nell’isola, segnatamente per opera del crudele imperatore Enrico VI di Svevia, che perpetrò in Sicilia inaudite efferatezza (pertanto nelle cronache antiche si parlò giustamente di ” furore teutonico “), facendo tra l’altro accecare Margaritone da Brindisi, già primo ministro di re Tancredi, e coronare con una corona di ferro rovente un certo Giordano, accusato di volersi far eleggere re; e si disse che fece spogliare perfino le, tombe dei re normanni dentro le chiese in cui erano sepolti. Enrico VI, dice la leggenda siciliana raccolta da Luigi Natoli,’ aveva imposto nelle varie città siciliane vescovi e dignitari a lui fedeli, e naturalmente suoi degni rappresentanti, anche quanto a ferocia. Uno di questi era il vescovo di Catania, il quale aveva affidato ad un suo scudiero e a due palafrenieri il più bello dei suoi cavalli, una creatura meravigliosa e veramente unica nel suo genere, che un giorno, mentre era portato al passeggio da questi tre servi, improvvisamente si imbizzarrì, prese loro la mano, e via al galoppo. I due palafrenieri lo seguirono per quanto poterono, poi, stanchi, ritornarono a Catania; ed il crudele vescovo, degno rappresentante del suo fiero imperatore, li fece decapitare, e fece esporre in luogo pubblico le loro teste, per punirli di non aver saputo badare al suo cavallo. Il quale cavallo intanto galoppava instancabilmente per le balze dell’Etna, e saliva sempre più in alto, verso il cratere centrale. Il povero stalliere lo seguiva continuamente, consapevole di quel che gli sarebbe capitato se il cavallo del vescovo si fosse smarrito, e perciò non lo perdeva di vista un istante. Ma arrivato proprio sulla cima del vulcano, il cavallo diede un balzo, e sparì dentro il cratere. Il povero scudiero si mise a piangere, non soltanto per il dolore di tutte le sue membra, spossate dalla corsa sovrumana, ma anche per l’angoscia che lo prese: chi sarebbe andato a dire all’inesorabile vescovo della fine del suo cavallo, precipitato dentro l’Etna? Mentre così piangeva gli apparve accanto un bel vecchio, con una solenne barba bianca, che prese a confortarlo, e gli disse: ” lo lo so perché tu piangi. Ma vieni con me e ti farò vedere dov’è il cavallo del vescovo di Catania “. Lo scudiero, a quelle parole, si rianimò, e segui fiducioso il solenne vecchio;

il quale lo prese per mano e, datogli coraggio, lo fece scendere con lui addirittura dentro il cratere dell’Etna; e per un passaggio segreto, attraverso il fumo del vulcano, lo guidò (e qui allo stalliere parve veramente di sognare) dentro una bellissima reggia, in una grande sala piena di specchi e di marmi, dove c’era un trono tutto d’oro; e nel trono era seduto re Artù, circondato dai suoi cavalieri. Il buon vecchio, chiesto al re Artù il permesso di parlare, gli presentò lo stalliere, che si era messo in ginocchio davanti al re; e re Artù gli disse che sapeva chi era e perché fosse venuto lassù, e fattolo girare, gli indicò col dito che cosa c’era in fondo alla sala: il cavallo bianco del vescovo di Catania, tenuto per le briglie da uno stalliere.

Ed il re aggiunse: ” Ora torna dal tuo vescovo, e digli che sei stato nella reggia di re Artù, qui portato dalla fata Morgana mia sorella; digli anche che la sua crudeltà e la sua prepotenza, in cui egli è degno rappresentante del suo imperatore Enrico VI, hanno stancato perfino la pazienza di Dio, che presto lo punirà per mio mezzo; e digli infine che, se vuole il suo cavallo, venga a prenderselo lui stesso, salendo fin qui: ma se non verrà entro quattordici giorni, la notte del quattordicesimo giorno egli morirà “. E detto questo lo congedò, dopo avergli regalato un ricco mantello ed una borsa piena di denari. Lo scudiero, improvvisamente, si trovò sull’orlo del cratere; ed avrebbe veramente creduto di aver sognato, se non avesse avuto il ricco mantello sulle spalle, e la borsa piena di denari nelle mani. E, scendendo con passo leggero verso la città, rimuginava tra sé quanto aveva visto e sentito, e gli apparve chiaro che in tutta la storia c’era la mano divina, che si era servita del cavallo bianco e di re Artù per punire la crudeltà e la prepotenza del vescovo. Arrivato a Catania, la prima cosa che lo colpi fu la visione delle teste dei poveri suoi due compagni palafrenieri, che erano stati fatti decapitare dal vescovo perché gli avevano portato la notizia che il suo bel cavallo bianco si era perduto. Il primo impulso fu di voltare le spalle e di fuggire; ma ripensò a re Artù, e alla missione che gli era stata affidata, si fece coraggio e chiese di parlare al vescovo. Lo scudiero gli mostrò il ricco mantello e la borsa coi denari, e gli raccontò tutta l’avventura occorsagli. Man mano che ascoltava il racconto, il vescovo, maligno e diffidente, si faceva sempre più scuro in faccia, e alla fine sbottò incollerito: ” Ladro, ladro ed imbroglione Che storie mi vai contando? Tu hai venduto il cavallo, e coi soldi ti sei comprato il mantello, e nella borsa ci sono i soldi che ti sono rimasti! Ti farà impiccare! ”

 

Ma lo scudiero, per nulla intimorito, gli ripete, tra lo stupore dei presenti, tutto il racconto per filo e per segno, con la sicurezza di chi dice la verità. Il vescovo, interdetto e turbato, non si volle dare per vinto, e comandò: ” Buttatelo in galera! ” Ma non parlò più di impiccagione; e il termine dei quattordici giorni lo rendeva inquieto e timoroso. Ogni mattina si faceva portare davanti lo scudiero, ed ogni giorno lo scudiero gli ripeteva il racconto, e la tremenda predizione. Dopo che fu passata una settimana, il vescovo perdette la pace, e cominciò a mandare sull’Etna cavalieri e guardie, per vedere se potesse riavere il suo cavallo senza doversi umiliare dinanzi a re Artù. Ma dall’Etna non tornava nessuno, né cavallo bianco né cavalieri e nemmeno guardie. All’alba del quattordicesimo giorno il vescovo, ormai in preda alla disperazione, si fece venire davanti l’intrepido scudiero. ” Tu sei uno stregone “, lo investì, ” tu ti sei divertito a fare scomparire non solo il mio cavallo, ma anche i miei cavalieri e le mie guardie. Ed io ti darò ora il premio che si conviene agli stregoni come te: non la forca né la decapitazione, ma il rogo. Orsù, guardie, prendetelo e bruciatelo vivo! ” Nel dir così si alzò in piedi, ma strabuzzò gli occhi, diede una giravolta, e cadde morto stecchito. La profezia di re Artù si era avverata, e il crudele vescovo aveva terminato per sempre di ‘tormentare i poveri siciliani. Ed anche sul feroce imperatore Enrico VI si abbatteva inesorabile la vendetta divina, perché egli moriva a Messina, trentaduenne appena, il 25 settembre 1197. Ora è sepolto nel duomo di Palermo, assieme alla moglie Costanza (la ” gran Costanza ” di cui parla Dante nel terzo canto del Paradiso) e al figlio Federico II, di cui avremo subito modo di occuparci, nelle leggende che lo riguardano.